“Vi propongo di votare con chiarezza al termine” della direzione “un documento che segni il cammino del Pd sui temi del lavoro e ci consenta di superare alcuni tabù che ci hanno caratterizzato in questi anni”. Lo dice Matteo Renzi alla direzione Pd, proponendo “profonda riorganizzazione del mercato del lavoro e anche del sistema del welfare. Serve un paese che vuole investire e dare risposte ai nuovi deboli che sono tanti e hanno bisogno di risposte diverse da quelle date finora. La rete di protezione si è rotta, non va eliminata ma ricucita, sapendo che c’è uno Stato amico che li aiuta. Non siamo un club di filosofi ma un partito politico che decide, certo discute e si divide ma all’esterno è tutto insieme. Questa è per me la ditta”. Così Matteo Renzi ha aperto il suo intervento in direzione al termine di una giornata complicata con la riforma del lavoro al centro della discussione politica e sindacale.
Renzi ha parlato per tre quarti d’ora ribadendo la sua linea di riforma, ma inserendo anche una apertura al dialogo partendo proprio da quell’articolo 18 che a tanti appare come un tabù, ma anche sulla riforma del lavoro. Sull’art.18 ha proposto di lasciare in vita la discussa norma solo in caso di licenziamento discriminatorio e disciplinare (quest’ultimo caso mai citato finora) e per quanto riguarda il dialogo con le ‘parti sociali’ ha proposto un tavolo di confronto con i sindacati.
Nel corso dibattito durato quattro ore la profonda spaccatura sul tema della riforma del lavoro, ma in realtà sulla gestione del partito e sulla linea politica del governo, non si è ricomposta. Tra gli altri gli interventi di Bersani e D’Alema, hanno riproposto i termini del dissidio. D’Alema ha accusato Renzi di dire cose discutibili dal punto di vista della realtà delle cose: «Il dibattito politico deve mantenere un forte aggancio alla realtà, ma io potrei fare un lunghissimo elenco di affermazioni prive di fondamento».Bersani ha attaccato Renzi sul metodo di gestione del partito: «Ai neofiti della ditta dico che non funziona così. Io voglio poter discutere prima che ci sia un prendere o lasciare, prima che mi si carichi della responsabilità di far traballare un partito o il governo». Ed ancora: «Noi sull’orlo del baratro non ci andiamo per l’articolo 18. Ci andiamo per il metodo Boffo, perché se uno dice la sua, deve poterla dire senza che gli venga tolta la dignità».
Falliti i tentativi di mediazione, i lavori si sono conclusi dopo la replica di Renzi con la votazione di un documento che ha avuto, senza sorpresa visti i rapporti di forza, 130 voti a favore, 20 contrari e 11 astensioni.
A questo punto il confronto si sposta alle Camere dove la minoranza ha ribadito di voler continuare a portare avanti gli emendamenti al Jobs Act mentre la Cgil, e in serata anche la Uil, hanno ribadito il ricorso allo sciopero generale come arma estrema per fermare la modifica dell’art.18.
La tanto attesa direzione Pd sulla riforma del lavoro, che sta dividendo il partito di maggioranza, sarebbe dovuta cominciare alle 17. Ma è iniziata un’ora dopo, perché nel frattempo Matteo Renzi ha trattato in extremis con le minoranze, alla ricerca di una soluzione che per sedare le polemiche e accontentare tutti.
Questa mattina il premier è stato ricevuto al Quirinale dal capo dello Stato, Giorgio Napolitano e nelle stesse ore, i sindacati in fibrillazione si sono riuniti per cercare un’intesa sul Jobs act. Cgil, Cisl e Uil, che sulla questione si sentono tagliati fuori dal premier, tentano di capire se vi siano i margini per ricondurre le diverse posizioni ad un’azione unitaria.
La tensione è stata alta, con la minoranza del Pd che si è riunita prima per decidere sull’atteggiamento da mantenere in Direzione. Il rischio scissione non esiste, lo spiega D’Attorre: “Il nostro obiettivo non è quello di cambiare il premier o cercare soluzioni pasticciate, il problema è quello di cambiare la politica del governo. La scissione è fuori dall’ordine degli argomenti. Il problema è capire se l’agenda e le priorità si decidono nel Pd e nella maggioranza – ha sottolineato – o se invece sono frutto di una consultazione preventiva con Forza Italia”. Minoranza che non ha raggiunto una posizione unitaria tra chi era orientato a votare no alla relazione del segretario e chi invece fino all’ultimo ha ritenuto possibile un punto di incontro per una ricomposizione.
Dal governo è arrivata intanto la risposta del ministro del Lavoro, Giuliano Poletti: “Il presidente del Consiglio – ha affermato – è stato molto chiaro. Oggi ci sarà una discussione nella direzione nazionale del Pd e in quella sede avremo una ripuntualizzazione e, completata la discussione, tutti gli elementi per procedere in parlamento”. Stessa posizione del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio, arrivando alla sede dei Democratici per la Direzione del partito rassicura: “Il Pd è un grande partito e quindi è capace di trovare una sintesi”.
Ma oggi è stato anche il giorno di Padoan che è intervenuto alla Camera in occasione della Conferenza interparlamentare sul fiscal compact. Ha parlato di riforme strutturali che definisce coma la vera sfida che aspetta l’Europa. Per il Ministro dell’Economia l’Europa è a un bivio e per superare la crisi “deve saltare su un sentiero di crescita. Possiamo immaginare l’Europa dei prossimi anni in continua stagnazione e bassa crescita senza significativi contributi alla creazione di occupazione, oppure possiamo immaginare che finalmente l’Europa sia in grado di saltare su un sentiero che sia in grado di produrre ricchezza e possibilità di lavoro ai giovani e non solo” E poi sulle riforme ha detto: “L’evidenza mi dice che le riforme che hanno successo sono anche quelle che possono contare sul consenso perché sono state condivise e discusse nelle sedi istituzionali appropriate inclusi i Parlamenti. Le riforme – ha detto ancora – vanno adottate e implementate ed è necessario che ci sia sufficiente tempo affinché i risultati di queste riforme strutturali, che hanno anche costi politici e sociali nel breve termine, i benefici si possano vedere. Di conseguenza è necessario che ci sia consenso”.
Nel dibattito si è inserita anche l’idea lanciata da Renzi di dare il 50% del Tfr subito in busta paga. Una ipotesi che però ha raccolto molti no, a partire da Confindustria, che sottolinea la complessità di applicazione di una misura di questo genere. Contraria anche la leader della Cgil Susanna Camusso mentre c’è chi più semplicemente obbietta che la tassazione sul Tfr è più bassa, quindi più conveniente per il lavoratore. Col TFR in busta a guadagnarci sarebbe invece solo lo Stato.
Red. Av.
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Sull’art.18 sta andando in scena il teatro dell’assurdo
di Maurizio Ballistreri
Appare davvero surreale, degno del “Teatro dell’assurdo” di Samuel Beckett, il dibattito sull’art. 18.
Il premier Renzi, che afferma l’esigenza di non discriminare i lavoratori senza “tutela reale”, la reintegrazione in caso di licenziamento illegittimo, e per questo sostiene un’operazione di riforma dei diritti per sottrazione: si tolgano a quelli che c’è l’hanno per parificarli a chi ne è privo!
L’opposizione interna al Pd, con Bersani, sostiene che la proposta del governo deve essere modificata e per questo rilancia, paradossalmente, il modello degli economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi, notoriamente sostenitori del “liberismo a sinistra”, che, in verità, non è molto diverso da quello del giuslavorista-senatore montiano ex-comunista Pietro Ichino: il contratto a protezione crescente, in cui le attuali tutele, differenziate a seconda del limite dimensionale di 15 dipendenti, vengono applicate dopo 3 anni. Non si capisce quale sia la differenza con la proposta Renzi-Ichino, anzi, qualcuno nell’opposizione del Pd sostiene che si potrebbe portare il periodo di non applicazione delle tutele contro i licenziamenti ingiustificati a 6 anni: già, come diceva Keynes “nel lungo periodo saremo tutti morti!”.
La leader della Cgil, a fronte dell’incertezza e sovente della confusione delle altre due confederazioni, Susanna Camusso, avverte che se sull’art. 18 Renzi interverrà per decreto-legge, “sarà sciopero generale”. Minaccia che appare poco credibile, un po’ come la maschera di legno da leone del ciabattino di Shakespeare, visto che i sindacati non hanno scioperato neanche dopo la sciagurata riforma-Fornero delle pensioni del governo-Monti.
La stampa poi, aggiunge sovente confusione. È il caso dell’ultimo editoriale su “Repubblica” di Eugenio Scalfari, che afferma, senza conoscere i profili giuslavoristici connessi, che con la riforma-Fornero non esiste più la tutela contro i licenziamenti illegittimi, ma solo quelli per discriminazione. Scalfari, come molti giornalisti, dovrebbe documentarsi, evitando affermazioni infondate, poiché la riforma voluta dal governo-Monti ha depotenziato, ma non abolito la reintegra nei casi di licenziamenti illegittimi. Per inciso, però, bisogna dire che il fondatore del quotidiano di Carlo De Benedetti nello stesso articolo, sembra colto da resipiscenza verso la storia socialista, alla quale, peraltro, è debitore di una elezione al Parlamento nel 1968. Scalfari riconosce al ministro del Lavoro socialista Brodolini di avere voluto lo Statuto dei diritti del lavoratori e alla cultura liberalsocialista di Eugenio Colorni, Ernesto Rossi e Altiero Spinelli di essere alla base dell’europeismo. Coraggio Scalfari, prima o poi arriverà, finalmente, a riconoscere i meriti di Craxi e del “Nuovo corso socialista”!
Certo, a proposito dell’art. 18, laicamente vanno dette due cose.
La prima: non è pensabile che per fronteggiare la drammatica crisi in atto, fondata sull’accoppiata recessione/deflazione, si debbano attendere, quasi messianicamente, le annunciate le misure di intervento della Banca centrale europea, e la possibile “concessione” della flessibilità sul rapporto deficit/pil solo dopo il varo di riforme, rivolte a colpire, ancora una volta, il ceto medio e le classi più deboli in Italia.
Questo sembra essere il portato dell’annunciata riforma del mercato del lavoro del governo Renzi, che dovrà esibire lo “scalpo” all’Unione europea e a Mario Draghi dell’art. 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori.
La seconda: l’art. 18 non può essere un tabù. Soprattutto i socialisti lo sanno bene, visto che, come ricordò a suo tempo un grande maestro del diritto del lavoro come Gino Giugni (con il quale chi scrive ha avuto il privilegio di collaborare sul piano accademico e su quello politico), il disegno di legge originario predisposto dal governo Rumor, su forte iniziativa del ministro del Lavoro socialista Giacomo Brodolini ed elaborato proprio da Giugni, prevedeva la reintegrazione sul posto di lavoro solo nei casi di licenziamento discriminatorio; fu in parlamento, nel mutato clima sociale dell’epoca segnato dall’affermarsi del potere operaio delle confederazioni sindacali, dopo l’autunno caldo nel 1969, che avvenne l’estensione della reintegra a tutti i lavoratori in unità produttive con più di 15 dipendenti.
Il Psi ha presentato al Senato con il segretario Riccardo Nencini una proposta di buon senso. Si tratta di un’ipotesi complessiva per l’introduzione in Italia, all’interno di un Welfare State rinnovato di tipo promozionale e non assistenziale, della flexiecurity, il modello di tutele sociali, che ha in Scandinavia il paradigma ma che è diffuso in forme varie nel resto d’Europa, in grado di assicurare sostegno al reddito in caso di disoccupazione, in sinergia con percorsi virtuosi di formazione-riqualificazione professionale e di reinserimento al lavoro. Un esempio: in Italia i senza-lavoro che percepiscono un’indennità di sostegno al reddito non arrivano al 20%, in Francia il 75%, in Germania l’80% e nei Paesi scandinavi la totalità, tranne i casi di rifiuto a passare dalla condizione di disoccupati all’immissione in azienda.
E per ciò che riguarda l’art. 18, la sua applicazione nel disegno di legge socialista avverrebbe dopo un periodo di prova pari ad un anno, statuito per legge con la riforma dell’art. 2096 del codice civile, in cui il datore di lavoro potrebbe licenziare liberamente, tranne i casi di discriminazione, se dovesse ritenere il lavoratore non funzionale alla propria azienda.
Senza una profonda innovazione del nostro sistema di ammortizzatori sociali fondati su cassa integrazione e mobilità solo per chi perde l’occupazione, la povertà nel nostro Paese, purtroppo, non potrà che salire, mentre continueranno a scendere potere d’acquisto e, quindi, i consumi e con essi produzione e competitività, a fronte di un sistema economico che continua a pretendere tasse “svedesi” a fronte di salari “greci”.
Non si comprende perché l’attenuazione delle tutele per il lavoro dipendente possa costituire un incentivo all’occupazione. La crisi sociale conseguente alla recessione globale non si fronteggia sul terreno dell’affievolimento dei diritti sociali nella regolazione dei rapporti di lavoro individuali, ma predisponendo strumenti moderni di garanzie collettive uguali per tutti.
D’altronde, anche alcune importanti organizzazioni tecnocratiche un tempo esclusivamente sostenitrici della mondializzazione finanziaria e della deregulation nel campo dei rapporti di lavoro, si pensi al Fondo Monetario Internazionale e all’Ocse, hanno di recente evidenziato che il problema per le economie più avanzate per ciò che attiene la mancata crescita, è la scarsa domanda aggregata, mancano in buona sostanza investimenti e consumi, senza i quali non si crea nuova occupazione, che, quindi, non dipende da maggiore flessibilità e conseguente precarizzazione sociale.
Maurizio Ballistreri